Responsabilità Aggravata per il condomino che insiste nel chiedere la revoca dell’amministratore del condominio senza una valida ragione
Paga i danni chi chiede la revoca dell’amministratore di condominio senza motivo. È quanto si ricava dalla recente ordinanza n. 27326/2019, con cui la Cassazione ha respinto definitivamente il ricorso di una condomina, soccombente in primo e in secondo grado, confermando la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96, 3° co., c.p.c.
La vicenda
Nella vicenda, la donna chiedeva al tribunale di Milano – tra l’altro – disporsi la revoca, ai sensi degli artt. 1129, n. 11, e 1131 cod. civ., dalla carica di amministratore del suo condominio in Milano.
Il tribunale, con decreto, rigettava il ricorso. Il successivo reclamo proposto dalla ricorrente, veniva altresì rigettato dalla corte d’appello meneghina, che condannava la donna a rimborsare le spese del procedimento alla controparte, nonché a pagare, mille euro, ai sensi dell’art. 96, 3° co., c.p.c.
La Corte evidenziava, infatti, la colpa della condòmina, che ha insistito nel proporre il reclamo nonostante la decisione di primo grado fosse da considerarsi “del tutto coerente con le risultanze probatorie”.
La donna non ci sta e adisce la Cassazione, deducendo il difetto dei presupposti della malafede o della colpa grave necessari ai fini della condanna per responsabilità aggravata ex art. 96, 3° co., c.p.c.
La decisione
Gli Ermellini però respingono il ricorso. E rappresentano, innanzitutto, che in materia di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., “ai fini della condanna al risarcimento dei danni, l’accertamento dei requisiti costituiti dall’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave ovvero dal difetto della normale prudenza, implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità”.
Anche volendo analizzare la questione, come richiesto dalla donna, sotto il profilo della ragionevolezza, secondo la Cassazione, l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito risulta “in toto ineccepibile ed assolutamente congruo e esaustivo”. Ed erra quindi la ricorrente a sostenere che la corte milanese avrebbe fondato la condanna ex art. 96, 3° co., c.p.c., “su un comportamento ipotetico e non attuale”.
La responsabilità aggravata
Da piazza Cavour, infine, ribadiscono, i principi affermati dalle SS.UU. (con sentenza n. 9912/2018), secondo cui “la responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, 3° co., c.p.c., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate”. Peraltro, sia la mala fede che la colpa grave “devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione”.
Per cui, ricorso rigettato e condomina condannata a pagare anche l’ulteriore contributo unificato e le spese processuali.