Edilizia – Distanze – D.M. n. 1444 del 1968 – livelli essenziali delle prestazioni – Deroghe delle Regioni – Art. 2-bis, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 – Questione di legittimità costituzionale.
Sono rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale relative: a) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, come introdotto dal d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, per violazione degli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost.; b) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, come introdotto dal d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, per violazione dell’art. 117, terzo comma, lettere m) ed s), Cost.; c) all’art. 103, comma 1-bis, l. reg. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, come introdotto dalla l. reg. 14 marzo 2008, n. 4, e successivamente modificato dalla l. reg. 26 novembre 2019, n. 18, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, Cost. (1).
(1) La questione di legittimità costituzionale sollevata dall’appellante riposa sul presupposto per cui l’ art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 autorizzerebbe le Regioni ad emanare una legislazione derogatoria rispetto al d.m. n. 1444 del 1968 in materia di dotazione delle aree a standard fino a poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell’art.117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
La Sezione ha esaminato la possibilità di una lettura costituzionalmente orientata della norma statale, tale da far venir meno il dovere di rimessione della questione alla Corte costituzionale. Una prima possibile interpretazione poggia sul rilievo che le regole cogenti del d.m. n. 1444 del 1968 si rispanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una seconda interpretazione prospetta la possibilità di interpretare la norma nel senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m. Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza” delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro inderogabilità da parte del legislatore regionale. Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve – in sostanza – nel far dire alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova aggancio nel dato testuale. Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo possa forse essere ingenerato dal successivo comma 1-bis dell’articolo in esame, introdotto dal più recente d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 giugno 2019, n. 55, secondo cui le disposizioni del comma 1 “sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio”, il tenore testuale del comma 1 rimane inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968 alla possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”. Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale, non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n. 1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
La Sezione ha ipotizzato che la norma statale di principio sia da rivenirsi nel già citato articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale – come è noto – costituisce la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968, imponendo agli strumenti urbanistici generali il rispetto di parametri e limiti definiti espressamente “inderogabili”.
Ha ancora chiarito la Sezione che posto che nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali. Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, il quale, autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano a “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444”, produce l’effetto di “neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette disposizioni dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle disposizioni regolamentari che ne discendono. 9.4. Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U. dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle infrastrutture, del verde pubblico etc. Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui, obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli, che – come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio – risulta potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse Regioni pur in relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e ad interventi edilizi rientranti nella medesima tipologia. Sul possibile contrasto con l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed s), della Costituzione.